È un’intervista insolita, quella di oggi. Non c’è il tavolino di un bar, una scrivania, magari con il registratore sistemato tra me e la persona che dovrà rispondere alle domande. Oggi i microfoni cascano dall’alto. Mi trovo in una scuola di musica, Amandla MusicLab, più precisamente dietro a una batteria, e tra una domanda e l’altra si suona. Volevo raccontare un batterista importante e avevo bisogno di parlare con un batterista importante: Cristian Martina. Tra le sue collaborazioni figurano Alessandro Quarta, Opa Cupa, Cistiano Godano dei Marlene Kuntz, Mike Stern, Amii Stewart. Ma oggi parliamo di John Bonham.
Chi è stato per te John Bonham e come ha influenzato il tuo modo di suonare la batteria?
Rappresenta prima di tutto il batterista visto come artista. Molte volte il batterista viene inteso come un musicista di accompagnamento, John Bonham invece è molto altro. L’ho scoperto che suonavo già da una decina di anni e la cosa che mi ha ammazzato è il fatto che i Led Zeppelin fossero lui. La sensazione che avevo è che tutto il mondo dei Led Zeppelin fosse costruito attorno ai suoi groove, alla batteria e oserei dire che gli altri erano il bassista, il cantante, il chitarrista di John Bonham.
Nel rock abbiamo visto spesso la chitarra al centro della canzone, con i Led Zeppelin invece è la batteria che diventa il fulcro di tutto. Cos’ha rappresentato per te questa band?
Per me è la band più forte di tutti i tempi. Vado anche oltre ai generi: fanno parte del podio della musica mondiale. I Led Zeppelin sono un’idea di suono, che probabilmente oggi non c’è più e che in pochi sono riusciti a raggiungere. John Bonham non era il batterista, ma il cantante della band, il solista. Non a caso dopo la sua morte nessuno della band se l’è sentita di andare avanti perché sapevano perfettamente di essere loro al suo servizio.. Attenzione: con questo non voglio dire che Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones fossero meno importanti, ma Bonham era il leader della band per attitudine, suono, groove. Tanti pezzi dei Led Zeppelin sono stati pensati sul groove di John Bonham.
L’insegnamento più grande che ci hanno lasciato i Led Zeppelin è non ragionare più per generi musicali. Sono etichettati come band hard rock, ma ogni volta che li ascoltiamo possiamo intuire numerose influenze come blues, funk, swing. Quanto è stato innovativo questo approccio?
In quegli anni sono stati qualcosa di nuovo. Nel decennio precedente c’erano stati i Beatles che avevano iniziato questo discorso di esplorazione dei generi. Infatti, per quel che mi riguarda, tra i miei batteristi preferiti c’è senz’altro Ringo Starr. Lui e John Bonham, in quanto batteristi, non si sono mai dati limiti nella loro musica.
Bonham è riuscito a unire il terzinato dello swing con il binario del rock: da lì è uscito il funk e in questo è stato un maestro assoluto. Era un batterista di matrice rock però aveva una mentalità musicale a 360 gradi: ha suonato con spazzole, mani, mallet, quattro bacchette. Ha suonato tempi dispari, lo swing, ha suonato sotto terra… C’è un brano che vi invito ad ascoltare, The Crunge, dove troviamo un groove in 9/8 molto difficile e Robert Plant ci canta sopra come se fosse una ballad. A quei tempi chi ha ascoltato una cosa del genere credo sia rimasto scioccato.
Abbiamo parlato di funk e swing. Sul blues hai una storia da raccontarci.
Sul blues abbiamo un Led Zeppelin III, 1970, la ballad più bella degli anni ‘70, Since I’ve been loving you, che ti invito ad ascoltare con maggiore attenzione: la canzone parte con un piccolo lancio di chitarra blues e poco prima dell’ingresso della batteria potete ascoltare la molla del pedale di John Bonham. Si sente tantissimo, ma la band ha deciso di lasciarla, è come stare in sala con loro. In quella canzone ogni colpo di John Bonham è pesante come una tonnellata, forse è il groove dei groove. C’è la teoria che cerco di trasmettere ai miei allievi ogni giorno: la semplicità è la cosa più difficile, specialmente nella batteria. Quando sentiamo un groove di batteria effettivamente semplice vi posso assicurare che quella è una delle cose più difficili in assoluto.
C’è lo stereotipo di John Bonham come virtuoso della batteria. Questo però nasconde un altro aspetto, ovvero il fatto di essere un batterista molto ordinato. Come si coniugano questi due approcci?
John Bonham era un batterista dotato di una tecnica incredibile, però la sua forza è stata quella di unire la tecnica alla musicalità. Potete prendere qualsiasi canzone dei Led Zeppelin e di fronte a qualsiasi variante molto difficile dal punto di vista tecnico voi ci troverete sempre qualcosa di musicale. Io non so come ci sia riuscito, forse ascoltare musica in quegli anni per lui era più semplice perché ha comunque avuto modo di girare il mondo. Per questo il consiglio che do oggi ai miei allievi è di ascoltare quanta più musica possibile, è l’unico modo per apprendere la musicalità. Non te la può insegnare nessun maestro. Tante volte musicalità diventa interpretazione di qualcosa ed è sempre soggettiva.
La forza di John Bonham deriva da questo ed è stato in grado di non esagerare, tranne quando arrivava il momento di Moby Dick dove tutta la band scendeva dal palco e rimaneva solo lui.
Sei anche un maestro di batteria. Quanto conoscono John Bonham le nuove generazioni?
Quasi zero, a meno che non vieni da una famiglia dove hai il padre che è un appassionato dei Led Zeppelin. Ci sono gli appassionati dei Guns ‘n’ Roses, Ac/Dc, Linkin Park, ma fondamentalmente gli allievi parlano per quello che ascoltano in casa. Io stesso ci ho messo un po’ a conoscere i Led Zeppelin, sono arrivato ad avere 17 anni. Eppure mio padre è stato un batterista, un appassionato di musica, ma ascoltava principalmente Pink Floyd e Deep Purple.
I Led Zeppelin arrivano un po’ dopo perché sono più difficili. Il loro problema, ma anche la loro forza, è stata quella di non avere una vera e propria identità.
Facciamo finta che in questo momento entri un ragazzino che ha sentito il nome di questa band che prima non conosceva. Hai solo una canzone a disposizione per spiegargli chi sono i Led Zeppelin.
La prima canzone del primo disco: Good Times, Bad Times. È la canzone che mi ha letteralmente preso a schiaffi. Si conoscevano Whola lotta love perché era la colonna sonora di Top of the Pops, Starway to heaven perché per qualche mistero ti arrivava alle orecchie, ma in realtà della band non conoscevo altro. Fu Giorgio Pierri a farmi conoscere i Led Zeppelin, aveva un loro best of e la prima traccia era Good Times, Bad Times. All’inizio ascoltai una batteria molto percussiva, poi quando arrivarono le terzine con la cassa ricordo perfettamente la mia reazione “che cazzo sta succedendo? Cos’è questa cosa qui?”.
Il giorno dopo andai a casa, provai a fare questo pezzo a casa mia. Il soppalco del garage confinava con la falegnameria di mio padre, appena lui sentiva che suonavo per ore lo stesso pezzo veniva a risolvermi il problema. Salì sul soppalco dove si trovava la mia batteria e disse: “non ce la potrai mai fare, questo è un doppio pedale” e io risposi di no, “questo si sente che non è un doppio pedale”, anche perché nel 1969 forse il doppio pedale neanche esisteva.
Good Times, Bad Times e Black Dog sono stati i pezzi che mi hanno letteralmente fatto innamorare di John Bonham.
John Bonham ci ha lasciato 40 anni fa e la sua musica ha addirittura 50 anni di vita. Perché nel 2020 è ancora considerato il punto di riferimento della batteria?
Penso che in realtà non ci sia mai stato qualcuno che abbia realmente portato avanti quella filosofia creativa sulla batteria. Più che altro non ci sono stati batteristi che hanno fatto parte di band storiche che avevano quella concezione. Forse negli anni ‘80 l’unico esempio di band che ha provato a portare avanti questo approccio del batterista come fulcro sono stati i Police. Se togli Stewart Copeland non ci sono i Police.
Se guardiamo alla batteria “post-John Bonham” quali sono stati i musicisti che si sono avvicinati di più al suo suono?
Se parliamo di identità di suono, d’identità che si respira ad ogni colpo, secondo me un batterista che somiglia a lui è Steve Jordan. Se vai a togliere Steve Jordan dal trio di John Mayer togli tutto, anche se non si è sbizzarito tanto a inventare nuovi groove. Ma se parliamo di suono dopo è quello che mi fa dire “qui c’è lui”. Anche Steve Gadd lo senti da lontano.
Sono quei batteristi che puoi ascoltarli in qualsiasi contesto e modo e tu li riconosci: sono loro.
Io lavoro personalmente e con i ragazzi nel cercare questo genere d’identità.
Per ascoltare il podcast con l’intervista completa e i groove suonati da Cristian Martina andate al link:
Autore
Andrea Martina
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