Come nascono Capurso Guitars e la passione per la liuteria? Partiamo dalla passione: ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni e, soprattutto, vengo da una famiglia di appassionati di musica, quindi l’attenzione verso strumenti e musica c’è stata fin da subito. Un rituale delle mie domeniche da bambino era quello di mettersi vicino al giradischi e ascoltare vinili. Allo studio della chitarra si è affiancata anche una fortuna: mio padre era sempre in cantiere navale, costruiva e riparava barche quindi aveva a disposizione tutti gli attrezzi da falegnameria. Parallelamente alla passione della chitarra è iniziata a nascere anche quella della costruzione, fino ad arrivare a costruire (come hobby) chitarre per tutta la mia adolescenza.
Considerando che la liuteria si basa molto sull’impostazione artigiana, come ti sei approcciato nel tempo a questo nuovo mestiere?
È un mestiere che impari fondamentalmente sul campo, devi avere un atteggiamento molto empirico: costruire, osservare quello che è già stato costruito. È qualcosa che si sviluppa nel tempo, un po’ come lo stile di un pittore. Ovviamente ho fatto anche dei corsi perché avevo voglia di approfondire, quindi durante le estati universitarie andavo in bottega da qualche collega. Questo mi ha portato a trasformare il mio hobby in mestiere nel 2007 rispondendo anche a un’esigenza cittadina: abito in un territorio che è sempre stato un bacino di musicisti molto nutrito e non c’erano figure professionali che potevano mettere mani sugli strumenti. Ho iniziato a sistemare strumenti di amici e conoscenti finché il passo da hobby a business è stato breve.
Quanto coraggio ci vuole a investire in un’attività del genere, che possiamo comunque definire a tutti gli effetti un’attività artistica, a Brindisi?
Parti da un presupposto: il mio core business non è Brindisi. Se dovessi pensare solo al bacino d’utenza del territorio questa attività non potrebbe esistere. Capurso Guitars si riferisce soprattutto a un mercato nazionale e si basa specialmente sulla vendita, la riparazione è relativa. Come tutte le attività artigiane in Italia anche la mia si scontra con una tassazione molto elevata ed è necessario avere un mercato di riferimento il più largo possibile, infatti ammicco anche al mercato internazionale, ad esempio l’altroieri ho venduto una chitarra in Olanda. Riassumendo: per questo mestiere è difficile rimanere sul mercato se non punti a una grossa fetta di clienti. Chiaramente dipende anche dai prezzi e da cosa fai: se realizzi chitarre classiche puoi venderne anche dieci all’anno, ma io che sono specializzato in bassi e chitarre elettriche punto almeno ai 20 strumenti all’anno.
Per quanto riguarda Brindisi è prima di tutto la mia città, però è anche strategicamente perfetta: è al centro della Puglia, ogni giorno accolgo clienti da Bari, Lecce, Taranto. È chiaro che il commercio, oggi, ti permette di andare oltre la sede fisica: con un sito e-commerce puoi raggiungere praticamente chiunque.
In ogni caso rimanere in Puglia è una scelta soprattutto personale: sono innamorato di questa terra e l’arte non può prescindere dal luogo, il mio è comunque un lavoro artistico e ho bisogno di stare in un territorio che mi dia degli stimoli.
Le tue creazioni sono dei pezzi unici a tutti gli effetti. Che rapporto si crea con i musicisti? Si fidano dei tuoi consigli? Il rapporto diventa d’amicizia con quasi tutti. Con alcuni diventa un’amicizia davvero forte, con altri diventa di natura “lavorativa”. È chiaro che se acquisti un mio strumento nasce qualcosa di particolare perché io per costruirlo ho impiegato un pezzo della mia vita e questa vita la porti con te. Tendenzialmente ho due tipologie di clienti: chi compra uno strumento già fatto e presente in vetrina e chi vuole uno strumento su misura.
Hai mai ricevuto richieste molto particolari?
Una marea. Soprattutto con gli artisti famosi: ho fatto chitarre di ferro, ho costruito un basso stranissimo per il bassista dei Negroamaro usato nell’album Amore che torni, era un basso a scala con delle soluzioni tecniche ed elettroniche molto complesse. Prima del Covid ho lavorato con Valerio Combass, il bassista degli Après la Classe, realizzando un basso con delle specifiche molto mirate dove lui mi ha dettato ogni aspetto relativo al suono e all’ergonomia.
Alla fine io costruisco quello che non ti danno in negozio. Questo non vuol dire che lo strumento di liuteria suona meglio rispetto a quello del negozio, dal momento che puoi trovare strumenti anche di ventimila euro in vendita. Probabilmente lo strumento che trovi in negozio, per quanto suoni benissimo, non è quello che fa per te che è diverso. E io nasco per questa esigenza.
Vuoi dirci qualche altro artista con cui hai collaborato?
Lavoro con Maurizio Filardo, che fino all’anno scorso è stato uno dei direttori dell’orchestra di Sanremo. Poi c’è Alborosie che ha diverse chitarre mie. Ho anche lavorato con James Root, il chitarrista degli Slipknot. C’è Francesco Moneti, il chitarrista dei Modena City Ramblers. A freddo non li ricordo tutti, ma sono davvero tanti, tra l’altro molti sono anche turnisti ed è possibile trovare le mie chitarre nei grandi live di cantanti o gruppi.
Questo ha contribuito anche a far nascere un vero e proprio brand nell’ambiente.
Ci stiamo lavorando, è diverso rispetto a un grosso marchio che va nei negozi e viaggia su reti importanti. Il mio rimane sempre un marchio artigianale che viaggia su numeri bassi e fa sempre riferimento allo studio di Brindisi.
Durante la quarantena ne ho approfittato per lavorare ai cataloghi, ho iniziato a prendere contatti con Corea, Giappone, Olanda e spero nel giro di uno o due anni di riuscire a esportare all’estero almeno una decina di strumenti l’anno. Non tanto ai clienti diretti quanto ai negozi, che sono quelli che poi investono molto nella pubblicità.
Noto che negli ultimi anni, anche tra i giovani musicisti, inizia ad esserci molta più attenzione verso la liuteria per quanto riguarda gli strumenti elettrici. Prima il sogno era un particolare modello di Fender o Gibson, adesso c’è la voglia di una chitarra da Capurso.
La liuteria è ri-esplosa perché negli anni ‘80 e ‘90 comunque faceva dei buoni numeri. Diciamo che oggi è cambiato l’approccio, il metodo di costruzione. Trenta o quarant’anni fa, in Italia, nel mio mestiere non c’era la conoscenza che c’è oggi. I maestri sono stati gli americani, loro hanno sempre dettato la scuola.
Oggi sono migliorati i macchinari, le tecniche, escono dalla liuteria strumenti perfetti, fatti meglio rispetto a quelli che trovi in negozio. A questo si affianca anche l’esigenza di avere uno strumento unico. Mi rendo conto che la “pappa uguale per tutti” non è sempre buona. Fender e Gibson ormai le chiamo “Chitarre McDonald’s” che sono sempre uguali ovunque vai nel mondo. Probabilmente in questi anni si è avuta la necessità di affermare l’individuo e meno la massa e quindi avere uno strumento che rispecchi il proprio gusto, stile.
Tra l’altro c’è anche una differenza interna di mercato tra chitarristi e bassisti. Diciamo che il chitarrista è maggiormente tradizionalista e il bassista tende a sperimentare di più, questa differenza è dettata dal fatto che nei negozi i bassisti hanno meno scelta di modelli e quindi sono spinti a ricercare.
Sei stato un musicista. Quanto contribuisce nel costruire strumenti per altri musicisti?
Lo strumento è cucito su misura del musicista che lo andrà a suonare. Dietro deve esserci un’intelligenza costruttiva molto sviluppata. A livello di costruzione tutto è ponderato seguendo le indicazioni dei vari musicisti con cui collaboro. Ad esempio io non ho un modello di basso, ne ho cinque: ognuno diverso dall’altro e ognuno rispecchia una tipologia di bassista con gusti diversi e sottolineati. Poi è chiaro che anche io bisogno di musicisti bravi con cui lavorare. Come gli strumenti che realizzo, fortunatamente anche i musicisti non sono tutti uguali, quindi questo ti porta a costruire prodotti diversi tra loro che possano soddisfare le esigenze di quel bassista o chitarrista. Il mio approccio costruttivo non è di presunzione: io so suonare, ma non ho la presunzione che il mio stile debba andare in mano a un musicista. Devo progettare per chi ho di fronte, non deve essere qualcosa che va bene a me ma a chi suona, per questo deve nascere una collaborazione fortissima tra artigiano e musicista.
Ormai gli anni degli strumenti riparati per hobby sembrano davvero lontani.
Certo: quei tempi mi mancano anche perché si suonava davvero di più. In quegli anni a Brindisi c’era un bel fermento di gente che voleva suonare. Era meraviglioso: le sale prova erano piene, adesso invece si suona molto di più davanti al computer.
Sono cicli, generazioni, magari tra qualche anno torna la voglia di imparare a suonare.
Sono spariti eventi come il BAMS che permettevano alle band emergenti di suonare su un palco, farsi conoscere.
Assolutamente sì, adesso ci si accontenta di fare il video su YouTube, ti prendi le ventimila visualizzazioni e ti senti gratificato come se avessi fatto un concerto a San Siro. Ci può anche stare, però si perde il contatto umano.
Io, ad esempio, sto seguendo in questi giorni Alessandro Lunedì. Probabilmente lui è il musicista dei nostri tempi: fortissimo e che riesce a farsi conoscere più online che su un palco. Spara degli assoli della madonna su YouTube e Instagram e sicuramente arriverà, magari in una maniera differente rispetto ad altri. Non so se è meno bello questo modo, ma sicuramente è meno romantico.
Diciamo che la tecnologia è una figata nel momento in cui fai entrambe le cose e non sei solo legato alla sfera virtuale, ma anche al rapporto umano.
Autore
Raffaele Manca
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